CITY

City o town? Sogni o incubi? Desideri o paure?

Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, scriveva Italo Calvino. Il suo romanzo “combinatorio”, Le città invisibili, che raccontano un mondo alieno nel dialogo tra Marco Polo e Kublai Khan (il mitico nipote di Gengis Khan, condottiero dei mongoli e fondatore del primo impero Cinese) mi ha lasciato segni indebili, fin dalla prima lettura.

La sua struttura, con rimandi avanti e indietro tra i capitoli e le ambietanzioni, capace di creare veri e propri labirinti dell’anima, mi ha ricordato la mia ricerca. Una ricerca espansa, che mi ha portato avanti e indietro tra le mie collezioni.
Sono partito da una domanda sugli abitanti delle mie città invisibili: sono universalibus? o invisibilis? o sono fatti di ferro come le stelle e come le mie sculture iron people? Non ho scoperto una risposta, ma tante. Come tante sono le mie città, a partire da Trieste e Berlino via Roma.

Di questa collezione non è rimasto molto: le mie city sono sparse nel mondo, come è giusto che sia, nelle collezioni private e nei musei. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone, scriveva sempre Calvino. E sono tanti i deserti cui cerchiamo di opporci: deserti esterni ed interni. Forse per questo le mie città espanse hanno camminato tanto per scegliere la parete giusta contro la desertificazione.

Ne sopravvive qualcuna, nel mio studio. Attende la parete giusta per espandersi oltre l’architettura urbana ed aiutare qualcuno di noi, qualcuno di voi, ad opporsi al deserto interiore, oltre a quello che ci circonda.

Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura.
D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.

[Marco Polo]